Cap 9 L’uomo cacciatore
Quello che segue è un estratto del capitolo. I puntini indicano testo mancante, in corsivo mie aggiunte.
Siamo ora arrivati al pleistocene. Gli ominidi stanno risalendo i fiumi e si stabiliscono sulle sponde di nuovi laghi all’interno. ….
…. Ovviamente non fu un passo gigantesco quello che essi dovettero compiere allorché cominciarono le piogge del pleistocene; non fu molto di più di un cambiamento d’ambiente:
Ma l’interruzione era cessata. Drammaticamente le loro ossa riappaiono di nuovo sulle pianure ove, per milioni di anni, nessuna traccia degli ominidi era rimasta. Come si esprime Ardrey: “Tornammo da dovunque fossimo stati”. E tornammo mutati dal mare e diversi: eretti, con la pelle nuda, onnivori, capaci di servirci di utensili, nel primo stadio della ripresa dall’emergenza biologica, e nei primi stadi delle vere comunicazioni verbali.
Mi propongo di esaminare nei particolari quattro sfaccettature della leggenda androcentrica concernente gli sviluppi più importanti di questa fase della nostra storia. L’una è la tesi alquanto romantica di minoranza di Robert Ardrey, il quale sostiene che i semi della nostra società dilaniata dalle guerre furono gettati a quell’epoca, perché esistevano due specie di australopitecini, l’una pacifica e l’altra bellicosa e quella bellicosa eliminò la pacifica e divenne l’antenata del genere umano assetato di sangue.
Le altre tre sono di gran lunga più importanti perché vengono quasi universalmente accettate. Gli specialisti possono avanzare riserve su di esse, ma, per la maggior parte, le loro riserve non sono filtrate fino alla consapevolezza del grande pubblico; l’uomo della strada manda giù interi i miti.
Secondo il primo mito, l’uomo in quel periodo, divenne un carnivoro cacciatore, e la donna, non essendo una cacciatrice, rimase in casa con la progenie, in attesa che il compagno portasse le provviste senza le quali nessun membro della famiglia sarebbe sopravvissuto.
Il secondo mito vuole che, in conseguenza di ciò, la donna, già in tempi così primordiali, si riducesse ad essere una massaia e non desse alcun contributo alla cultura umana, mentre gli uomini gettavano tutte le basi della tecnologia e dell’arte.
Secondo il terzo mito, durante questo periodo la razza umana divenne legata a coppie perché l’uomo cacciatore necessitava di una tranquillità di spirito basata sul monopolio sessuale, e, per conseguenza, teneva una donna nella sua caverna, sfamando lei e i figli in cambio di favori sessuali e dando così origine al nucleo della famiglia monogama. Un uomo, una donna e i loro rampolli. ….
-La Morgan dedica poi alcune pagine ad analizzare l’ipotesi di Robert Ardrey che siano vissute in Africa due specie di australopiteco, A. robustus e A. africanus. Secondo Ardrey l’aficanus avrebbe finito per sterminare il più pacifico robustus e rappresenterebbe quindi il nostro antenato. Chiaramente questa parte del libro non può che rifarsi a quello che era lo stato della conoscenza ai primi anni ’70 (ancora non era venuto alla luce lo scheletro di Lucy) e mostra alcuni limiti, i ragionamenti della Morgan però, come sempre, mi sembrano assai validi. Ella ammette certamente che si possano essere formate più popolazioni e che queste possano essere rimaste in isolamento fino a differenziarsi l’una dall’altra-
…. Il termine impiegato talora dai biologi per denominare una di queste popolazioni che si riproducono nell’isolamento è “demo”. Si tratta di stabilire: che cosa accadde quando i demi dispersi della scimmia acquatica tornarono ad unirsi? La riunione poté determinarsi di quando in quando durante le migrazioni casuali lungo le coste, ma le probabilità di simili incontri aumentarono di gran lunga quando la fertilità del pleistocene aprì loro l’interno.
Si sarebbero incontrati come estranei. Forse, e lo abbiamo già veduto, avrebbero differito gli uni dagli altri in misura accentuata per l’aspetto. Forse i maschi di uno dei demi avrebbero attaccato e vi sarebbe stata una battaglia. Non è una conclusione tanto scontata come vorrebbero far credere alcuni autori, poiché specie diverse di primati spesso dimorano insieme in pace nella stessa zona di foresta; ma, anche se si fossero battuti, l’esito difficilmente sarebbe stato un genocidio.
E’ improbabile che in una zuffa del genere sarebbero state massacrate anche tutte le femmine e i piccoli incapaci di opporre resistenza. E se femmine e piccoli fossero rimasti in vita, possiamo essere quasi certi che vedove e orfani, appartenendo, come appartenevano, a una specie coattivamente gregaria, avrebbero seguito i vincitori anziché optare per la dispersione e l’isolamento, anche se, in base ai loro criteri, i vincitori fossero stati o troppo alti o troppo bassi, o troppo neri o troppo di pelo lungo, o si fossero nutriti con cibi insoliti, o avessero emesso strani suoni.
A questo punto il meccanismo tipo Galapagos si guasta. In quasi tutte le altre specie, un’ampia divergenza nell’aspetto o nel comportamento costituisce un varco troppo largo perché possa essere attraversato. Immaginate ad esempio una specie di uccelli che sia rimasta separata su due isole fino a dar luogo a una divergenza, diciamo, del venti per cento nelle dimensioni delle due popolazioni. In seguito all’azione della selezione naturale, questi demi, anche se riuniti, il più delle volte non si incrocerebbero, ma rimarrebbero in eterno distinti e cristallizzati in due specie, come accadde per la grande alca e la piccola alca.
E il fattore mediante il quale la selezione naturale assicura ciò è la schizzinosità delle femmine, che tendono ad essere conservatrici nelle loro preferenze. Dalla drosophila in su, esse tendono a respingere i maschi che hanno un aspetto o un comportamento diverso dalla norma. E, dalla drosophila in su (con una sola eccezione), sono gli arbitri definitivi. Se scalciano e schivano il maschio ed estrudono gli ovopositori, l’accoppiamento è semplicemente escluso.
Ma la femmina dell’ominide, quando tornò alla terra, non fu più né l’iniziatrice, né l’arbitra definitiva nel processo della selezione. Vedove e orfani che accompagnavano estranee truppe vittoriose non avrebbero avuto alcuna possibilità di piagnucolare a proposito della purezza del deme. Forse, invero, avevano cominciato a perdere l’istinto che le portava a far questo, e a partecipare, in una certa misura, alla “indeterminatezza di scopo” del maschio, In ogni caso venivano probabilmente considerate alla stregua di un bottino. Così, anche una variante di grandezza, diciamo trenta centimetri di statura in più o in meno, non avrebbe costituito un ostacolo agli incroci già allora, e non lo ha mai costituito in seguito. I soli ostacoli sono quelli geografici e culturali.
Pertanto non posso mandar giù la tesi di Ardrey che, siccome esistevano australopitecini grossi e australopitecini piccoli, dobbiamo concludere ritenendo fatale uno scontro, e dobbiamo per giunta decidere da quale delle due razze discendiamo, in quanto l’una dovette sterminare l’altra.
Una volta di più egli ha dimenticato che esistevano le femmine. E’ come dire che siccome Guglielmo il Conquistatore si scontrò con re Aroldo, noi dobbiamo decidere se gli inglesi discendono dai normanni o dai sassoni.
La variabilità, la versatilità, la vitalità del genere umano sono dovute in non piccola parte al fatto che essa è rimasta, biologicamente, un’unica specie; che, per quante nuove barriere siano intervenute, geografiche, sociali o di altro genere, per quanto spesso le popolazioni umane si siano isolate, divergendo per la morfologia o il colore o la cultura, una volta ristabilito il contatto, le singole correnti ricominciano a scorrere sempre di nuovo insieme e si arricchiscono a vicenda, e accrescono il potenziale evolutivo della razza come un tutto.
Se dobbiamo questo aspetto unico e infinitamente fruttuoso della biologia umana al fatto che la femmina fu privata della sua posizione di “specialista sessuale”, come la chiama Ardrey, allora l’emergenza biologica, per quanto penose ne siano state le ripercussioni, può aver costituito una delle cose più creative che siano mai accadute. Se così non fosse stato, allora, poiché gli uomini si sono diffusi sulla terra ancor più estesamente dei babbuini, vi sarebbero oggi più specie di Homo di quante non ve ne siano di Papio. In effetti, per quanto i razzisti si sforzino di non vedere la verità, ne esiste una sola.
Ce n’è una sola e , fino all’arrivo di mutanti culturali come George Bernard Shaw, la specie umana è stata per milioni di anni carnivora. Questa evoluzione di un primate mangiatore di carne viene talora considerata un fenomeno nuovo e unico. ….
-La Morgan fa in effetti notare, citando vari lavori di etologi, che non è affatto insolito che dei primati si cibino di carne, dai macachi agli scimpanzé sono molti i casi in cui scimmie uccidono e divorano prede.-
…. Appare molto chiaramente dunque che l’ominide non fu il primo né l’unico primate macellaio; né egli ebbe bisogno di alcuna “trasformazione genetica rivoluzionaria” per poter digerire la carne, poiché innumerevoli primati suoi cugini vi riescono con la massima disinvoltura. ….
-L’autrice fa altresì notare come in genere nei gruppi di cacciatori raccoglitori, la carne proveniente dalla caccia, difficilmente costituisce la parte principale della dieta-
…. Anche gli ominidi divenuti mangiatori di carne non erano dottrinari riguardo alla loro alimentazione. Anche noi siamo per la maggior parte mangiatori di carne: eppure etto in più o etto in meno, la carne costituisce soltanto una piccola parte del nostro consumo totale. La stessa cosa fu quasi certamente vera anche per quanto concerne i nostri antenati cacciatori. Sembra non vi sia motivo di dubitare della conclusione di Bartholomew e Birdsell che “Come quasi tutti i popoli cacciatori odierni, gli australopitecini probabilmente utilizzarono le piante come la loro più importante fonte di cibo” e vissero mangiando “uova, pesci, crostacei, insetti, piccoli mammiferi, rettili, le carogne dei mammiferi più grossi, bacche, frutti, noci, radici, tuberi, e funghi”. ….
…. Dico questo non per sminuire i conseguimenti. Nei momenti migliori sono certa che fosse magnifico, gli occhi abili nel seguire le tracce, non molto inferiori al fiuto dei felini, il passo instancabile, il coraggio grande, la mira micidiale, l’ingegnosità senza confronti, e le accoglienze, quando portava a casa il cibo, calde e chiassose. E’ tutto verissimo, per quanto attiene la sua abilità e la sua audacia, le sue armi e la sua intelligenza.
Eppure, occorre pareggiare il bilancio. Perché quando un tarzaniano dice a se stesso “carnivoro” pensa a un lupo, e pensa inoltre: “Si naturalmente, questo è quanto accadde alla nostra società. La donna rimaneva a casa nella caverna con la sua nidiata, come la lupa con i cuccioli appena nati, che non può prendere parte alla caccia. Rimanevano là finché l’uomo non faceva ritorno con il cibo, tutti quanti semplicemente distesi qua e là, in attesa di aiutare l’uomo a mangiarlo”. E se il tarzaniano vive in una società assillata dal mammismo e dagli alimenti e dalle ulcere dei dirigenti, la scena si cristallizzerà nella sua mente e avrà corollari inconsci quali “e da allora la donna non ha mai fatto altro” o “tutto quello che l’uomo ne ricavava era la possibilità di dormire con lei una volta terminata la caccia, quindi, Dio mio, scommetto che ella doveva essere molto abile in questo, se voleva la sua fetta di cacciagione.
Bernard Shaw mise in bocca a Caino, in “Ritorno a Matusalemme”, l’essenza della versione di un romantico della vita familiare del cacciatore: “Caccerò: lotterò e mi sforzerò fino a farmi scoppiare i tendini. Quando avrò ucciso il cinghiale mettendo a repentaglio la mia vita, lo getterò alla donna affinché lo cuocia e gliene darò un boccone in cambio delle sue fatiche. E lei non avrà altro cibo e questo la renderà mia schiava. E l’uomo che ucciderà me avrà lei come bottino. L’Uomo sarà il padrone della Donna, non il suo bimbetto e il suo facchino. Soltanto quando [un uomo] si è battuto, quando ha affrontato il terrore e la morte, quando si è adoprato fino ad esaurire l’ultimo briciolo della sua forza, può sapere che cosa significa riposare nell’amore tra le braccia di una donna”.
La risposta di Eva è intesa a presentare il rovescio della medaglia: “Tu padrone della donna! Sei suo schiavo più del bove di Adamo o del tuo cane da pastore. Uccidi la tigre mettendo a repentaglio la vita; ma a chi tocca la pelle striata per la quale hai corso un così grave pericolo? La prende la donna per giacer visi, e getta a te la carne della carogna che non puoi mangiare. Ti batti perché credi che il tuo batterti la induca ad ammirarti e a desiderarti. Sciocco: lei ti induce alle battaglie affinché le porti gli ornamenti e i tesori di coloro che hai ucciso. Che cosa sei tu, povero schiavo di una faccia dipinta e di un fagotto di pelliccia di moffetta? Tu sei, per gli altri uomini, quello che l’ermellino è per il coniglio; ed ella è per te quello che la mignatta è per l’ermellino”.
Tutto ciò è ottima dialettica e uno splendido compendio dei pro e dei contro del mito dell’Uomo Carnivoro, un mito tuttora esistente e attivo nell’inconscio collettivo di tutti i più gagliardi gruppi uniti nel legame maschile.
La femmina, dice Desmond Morris, “dovette rimanere inattiva e a badare ai figli”. Sembrerebbe che non avesse altro da fare per tutto il giorno. E, naturalmente, scaldarsi i muscoli per una possibile “bizzarra elaborazione di prestazione sessuale”, quando il cacciatore avesse fatto ritorno a casa, allo scopo di mantenere ben cementato il legame di coppia. ….
…. E’ gran tempo che l’intera faccenda venga fatta saltare, perché non si tratta soltanto di un mito puro e semplice, ma si tratta di un mito politico. Viene impiegato per convalidare, con pseudo storia e pseudo antropologia, la credenza che sia “contro natura” per le donne partecipare alla vita economica; che “da tempi immemorabili” gli uomini hanno detto “ella non avrà altro cibo e questo ne farà la mia schiava”; e che noi discendiamo da femmine la cui unica funzione era quella di placare il cacciatore e tenerlo felice e badare ai bambini.
Non fu mai realmente così; e, nelle superstiti comunità dedite alla caccia non è così nemmeno adesso. ….
-La Morgan prendendo vari riferimenti a studi compiuti sui gruppi di cacciatori raccoglitori come i boscimani, rileva che le donne e i bambini, che concorrono attivamente a procurare cibo per la tribù, mettono insieme mediamente tra il sessanta e l’ottanta percento del cibo consumato.-
…. Questo dunque è il quadro vero della vita del primate cacciatore. E’ ben lontano dalla leggenda del maschio che si fa scoppiare i tendini, mentre la sua compagna poltrisce su un mucchio di pellicce fino al momento in cui lei e la sua vorace nidiata potranno ingozzarsi con i frutti delle fatiche dell’uomo. Se egli porta l’arma ovunque vada, ella porta con se il frantumatore per macinare i semi tsamma e le noci mangongo, ricche di proteine, che sono il componente principale della loro dieta. ….
…. Ciò nonostante, il mito della femmina primitiva non produttiva persiste. Temo che non riusciremo mai a sradicarlo dalla mentalità umana. ….
…. Una conseguenza di grande rilievo risultò dalle nuove modalità di comportamento della femmina procacciatrice di pane e del suo compagno procacciatore di carne. Essi avevano ora più tempo per pensare, nonché nuovi problemi a cui pensare. ….
-L’attenzione della Morgan ci concentra adesso su di un altro fattore. La nuova economia mista caccia-raccolta permetteva probabilmente agli ominidi di soddisfare le proprie esigenze in un tempo nettamente minore rispetto al passato. Sempre rifacendosi a studi di antropologia di quegli anni, l’autrice mette in evidenza come generalmente i gruppi di cacciatori raccoglitori non lavorino più di due o tre giorni alla settimana.-
…. Se gli ominidi, possiamo ora chiamarli australopitecini, condussero un’esistenza di questo genere, essa rese possibili nuovi progressi verso la condizione umana. Il leone sazio si limita a starsene sdraiato e a dormire al sole, ma un primate, specie un primate giovane, è una creatura più irrequieta e curiosa. Non si sarebbe limitato a restare seduto per tutti i tre o quattro giorni del riposo settimanale. Avrebbe ingannato il tempo, per così dire, gingillandosi con qualcosa, facendo qualcosa. E ciò con l’applicazione e la pratica costanti, lo avrebbe aiutato ad evolversi, passando dall’australopithecus con un piccolo cervello, che scheggiava ciottoli, all’Homo sapiens il vero artigiano.
A questo punto non possiamo biasimare gli androcentrici se deducono, come fanno Washburn e Lancaster, che “gli utensili del cacciatore comprendono i primissimi begli oggetti costruiti dall’uomo, le bifacce simmetriche, specie quelle della tradizione acheuliana”. Era, in fin dei conti, il maschio ad aver l’incentivo a lavorare pietre riducendole a forme funzionali. Anche la femmina impiegava pietre; ma per macinare grani e noci occorreva, fondamentalmente, soltanto una pietra piatta su cui disporli, e una sorta di pietra rotonda mediante la quale pestarli; e, con un po’ di paziente ricerca nei dintorni immediati, ella riusciva di solito a trovarle già belle e pronte.
L’uomo invece, a questo punto, comincia a emergere come il tecnologo. I problemi posti dalla sua nuova attività gli stanno mettendo a dura prova il cervello: gli occorrono armi che possa vibrare e scagliare. Come osserva Washburn: “Una scure o una lancia da impiegare con rapidità e con forza sono soggette a limitazioni tecniche molto diverse da quelle dei raschiatoi e dei bastoni per scavare, e può darsi benissimo che sia stato il tentativo di costruire armi efficienti, da maneggiare rapidamente, a produrre per la prima volta begli oggetti simmetrici”. In via di ipotesi, punta ancora più oltre, dall’artigianato all’artista: “Ovviamente il successo degli utensili ha esercitato una grande influenza sull’evoluzione del cervello, e ha creato le capacità che rendono possibile l’arte”.
E la donna, ahimè, non fu mai una scagliatrice di lance. Può essere che già qui si possono individuare gli inizi della dicotoma la quale spiega perché non esista alcun equivalente femminile riconosciuto di Leonardo e Rembrandt e Picasso? Sarebbe rattristante il pensarlo.
Cerchiamo di immaginare come impiegasse lei le ore libere. Quando gli ominidi erano in movimento, gli occhi del maschio non facevano che cercare tracce, escrementi, carogne, qualsiasi indizio di una preda o di un predatore; gli occhi di lei erano altrettanto impegnati nella ricerca di bacche desiderabili, foglie, semi, larve o nidi di api selvatiche. Il compito dell’uomo richiedeva coraggio, rapidità, un’arma; il compito della donna richiedeva pazienza e (poiché ella raccoglieva più di quanto le occorresse per sfamarsi), un contenitore. Mezza noce di cocco non è un’ipotesi improbabile. Il guscio di un uovo di struzzo era ancor meglio, in quanto riusciva più facile eliminare la superficie voluta per ottenere un’apertura. Capitavano volte però, sulle pianure, in cui non si trovavano né palme da cocco, né zucche, né uova di struzzo, e la donna quando non aveva niente di meglio da fare, gironzolava spesso nei dintorni cercando qualcosa di concavo e di portatile, e probabilmente di circolare in quanto i recipienti ai quali era assuefatta avevano una forma circolare.
Le sole cose sulle quali i suoi occhi si posavano, e che avevano in qualche modo una conformazione simile a questa, erano le impronte cotte dal sole lasciate dagli ungulati nel fango intorno alle pozze d’acqua. Ripetutamente, gli occhi di lei avranno trasmesso il messaggio: “Questa è la forma giusta”, ma il cervello di lei lo respingeva perché non si trattava di una forma portatile.
Inevitabilmente un giorno, mentre il maschio stava scheggiando selci, la femmina avrà tentato di scavar fuori dal fango secco una delle impronte intera, e naturalmente essa si frantumò. Altrettanto inevitabilmente, prima o poi, in un lungo pomeriggio estivo, mentre era sazia, la femmina, avendo fallito di nuovo, cominciò a giocherellare con il fango bagnato, a foggiare una noce di cocco artificiale e a lasciarla sotto il sole bruciante che la cuoceva mentre lei andava a cercare la cena.
In termini archeologici, le terraglie vengono molto tempo dopo le armi. Sono di gran lunga meno durevoli della pietra e i primi manufatti dilettanteschi si disintegravano facilmente e non si conservarono mai. Tuttavia, quando ci domandiamo quale fu “il primo bell’oggetto simmetrico” mai foggiato, è molto arbitrario stabilire se si trattò della punta di una lancia dell’uomo o del recipiente della donna. Non che le sia stato mai riconosciuto il merito del recipiente, comunque. Le armi sono un invenzione del “maschio”, del “cacciatore”, mentre le terraglie furono, come ogni scolaretto ben sa, inventate dall’”uomo”.
Si tratta, tutti lo riconoscono, di un termine generico, il quale può indicare anche la compagna dell’uomo; ma non posso fare a meno di ritenere che quasi tutti gli autori, se pure capita mai loro di pensarci, si attengano alla seguente vaga teoria: “Un giorno l’uomo notò, con una risatina furtiva, che la piccola donna si stancava trotterellando avanti e indietro per portare a casa semi una manciata alla volta. Senza dir niente, mise da parte le sue belle armi simmetriche e durante alcune settimane abbandonò i compagni uniti a lui dal legame maschile mentre si dedicava a questo problema, inventando infine il vaso. Ne diede alla donna alcuni prototipi, insieme a un rapido corso d’istruzioni, l’accarezzo sul capo e corse via attraverso la savana per raggiungere il gruppo di caccia”.
Bene, può anche darsi che sia andata così. Nessuno è in grado di dimostrare il contrario; precisamente come nessuno è in grado di dimostrare che alla donna non venne mai in mente di dire: “Giocate tranquilli tra voi oggi bambini, io sono occupata nell’inventare l’arco e la freccia per vostro padre”: Io sostengo soltanto che la seconda di queste panzane non sarebbe in sé più credibile della prima; perché la necessità è la madre dell’inventiva, e poiché i ruoli economici di maschio e femmina divergevano, il recipiente era una necessità per la donna, non per l’uomo. Nessuno porta a casa la cacciagione entro un vaso.
E quando arriviamo all’homo sapiens preistorico, siamo guidati da qualcosa di più della probabilità. Mentre possiamo soltanto dedurre, per quanto fiduciosamente, che furono i maschi a costruire le armi preistoriche, i fabbricatori di terraglie preistoriche lasciarono le loro impronte digitali sui manufatti; e l’archeologo sovietico P. N. Tret’jakov, tra gli altri, ha fatto rilevare come la forma delle impronte indichi molto chiaramente che le terraglie furono opera di femmine.
L’ultima importante forma di comportamento comunemente descritta come un retaggio dell’era caccia-raccolta del cibo, è la monogamia. O dovrei chiamarla “legame di coppia”? No, non credo che dovrei: Ha un suono splendidamente scientifico, ma in effetti include tutta una serie di errori sulla natura dei rapporti umani.
In primo luogo, quella dell’homo sapiens non è, e non è stata mai, una specie portata al legame di coppia. Pochissime specie lo sono. L’abitudine di scegliere un compagno di sesso e di restargli fedele “finché la morte non ci separi” è adottata soltanto da un tipo di creature selezionate e stranamente assortite che comprendono il corvo, il gibbone, l’oca e una specie di gambero. Questa caratteristica sembra essere l’unica condivisa da tutti. Essi comprendono animali da preda e erbivori; uccelli, erbivori e crostacei, specie gregarie e specie non gregarie; vivono in regioni diverse del pianeta, in tipi diversi di ambiente, persino in elementi diversi. Sembrerebbe quasi che la madrina fatata in grado di conferire il dono biologico della fedeltà per la vita, abbia scelto a caso, in un cappello, i nomi dei beneficiari. E il cappello non conteneva alcun bigliettino con il nostro nome.
Se avessimo le stesse modalità biologiche di accoppiamento dell’oca, non potrebbero esistere la poligamia, la promiscuità, il celibato, gli harem, i matrimoni di gruppo, il matrimonio di prova, e il divorzio in nessuna comunità umana in nessuna parte del mondo. Dire “la mia ex moglie” non avrebbe più senso della frase “la mia ex sorella”. Il legame di coppia sarebbe, per l’uomo, ineluttabile come la pubertà o la morte, ed egli si unirebbe per la vita alla miglior femmina, libera da impegni, disponibile per lui durante il breve periodo in cui fosse maturo per questo accoppiamento. ….
-Come avviene appunto nelle specie monogame prima rammentate.-
….Quello che noi esseri umani abbiamo non è un legame di coppia, ma una modalità di organizzazione nota agli scienziati come nucleo familiare, vale a dire padre, madre e rampolli.
Siccome questa è una caratteristica tanto familiare delle nostre esistenze, la maggior parte delle persone tende a proiettarla, un po’ troppo indiscriminatamente, sulle vite degli altri esseri viventi. Raccontiamo ai nostri figli fiabe sulla comoda casetta di “Babbo Orso e mamma Orsa e orsacchiotto”, dimentichi del fatto che babbo orso inghiottirebbe certamente l’intero orsacchiotto non appena lo vedesse, se mamma orsa non sottoponesse il piccolo a un severo allenamento in fatto di arrampicate su per un tronco d’albero prima di lasciarlo libero e indipendente. La disposizione tipo Arca di Noè adottata da molti giardini zoologici, quella cioè di appaiare un maschio e una femmina, incoraggia i genitori a dire ai loro figli: “Ecco babbo elefante, mamma elefante, e il bambino elefante”; “Ecco babbo giraffa, mamma giraffa e il bambino giraffa”; “Ecco babbo scimmia, mamma scimmia e il bambino scimmia”, e così via, ad infinitum, come se il nucleo familiare fosse una caratteristica naturale delle vite dei pachidermi, degli ungolati, dei primati, Nella grande maggioranza di questi casi, il ruolo di “papà” è puramente genetico; la sua interazione con una qualsiasi “mammina” individuale tende ad essere casuale e fuggevole, e la sua reazione individuale alla prole è minima o inesistente.
Il gruppo dei primati dal quale deriviamo non fa, in generale eccezione alla regola. ….
…. A un certo punto (comunque), per qualche motivo, noi divergemmo dalle costumanze dei nostri parenti e ci incamminammo sul sentiero che condusse alla fedeltà….
…. Riguardo a quando ciò accadde, le prove disponibili additano il pleistocene, l’apogeo degli ominidi cacciatori e raccoglitori di cibo, l’era che, in ultimo, diede luogo ai veri uomini. Ma il perché ciò accadde non è altrettanto chiaro.
I tarzaniani partono dalla premessa logica che dobbiamo cominciare da qualcosa di ancor più semplice e fondamentale del nucleo familiare formato da babbo-mamma-e-rampolli. Per conseguenza scelgono, come minimo irriducibile, la coppia un-maschio una-femmina, e tentano di spiegarne l’esistenza. Naturalmente, attribuiscono tutto al sesso e alle necessità del maschio cacciatore. Esso doveva essere certo che la femmina gli restasse fedele mentre si trovava lontano sulla lunga pista, e via dicendo.
Ma, senza dubbio, questa è un’asserzione straordinariamente soggettiva a farsi. Quasi tutti i primati se ne infischiano se le loro compagne restano o meno “fedeli”. I maschi più ferocemente dominanti spesso stanno a guardare senza battere ciglio una delle loro femmine predilette che copula a pochi metri di distanza. ….
…. La verità è che non esiste niente di inerentemente esclusivo, o di inerentemente permanente, nel rapporto sessuale. Non v’è alcuna insita ragione per cui una qualsiasi creatura debba esigere che il rapporto sessuale, più del rapporto grattatina alla schiena, debba dar luogo a una associazione bilaterale duratura. Tra tutti i vari legami che consentono alle società animali di avere una coesione, il legame sessuale è quello che ha le maggiori probabilità di essere effimero. Nei casi in cui non lo è, vi sono sempre altri e più potenti fattori in azione.
Diamo ancora un’occhiata a questa premessa: che il nucleo familiare abbia origine dalla coppia maschio-femmina. Se state pensando in termini di confetti e campane nuziali, questa è una delle verità che possiamo considerare senz’altro lapalissiana. Ma se state pensando in termini di evoluzione, allora, lungi dall’essere lapalissiana, è una vistosa assurdità.
Il minimo irriducibile che precedette il nucleo familiare di parecchi milioni d’anni non fu affatto il gruppo “babbo-mamma”. Fu il gruppo mamma-e-rampolli. ….
-La Morgan, citando vari studi di etologia rileva che in quasi tutte le specie di primati si riscontra un forte legame madre-figli, che spesso si protrae fino all’età adulta di questi ultimi.-
…. Mentre l’organizzazione della famiglia dei primati rimaneva incentrata sulla madre, i maschi avevano un ruolo importante come capi e difensori del gruppo e del suo territorio; erano importanti come mentori e modelli per i gruppi di giovani maschi che crescevano; e la loro vita sessuale era promiscua e soddisfacente. Non sarebbe mai passato per la mente di una qualsiasi di queste libere e splendide creature di legarsi definitivamente a una singola femmina e alla progenie che essa avesse regolarmente generato e della quale si fosse circondata. Eppure, in ultimo, è proprio quello che fecero: dobbiamo domandarci il perché.
Vi sono molte specie nelle quali il maschio ha un ruolo più che genetico, e molto spesso non riusciamo a tracciare una netta linea intorno ai fattori che impongono questa linea di comportamento. Alcune determinanti, tuttavia, si possono osservare facilmente.
Si tratta sempre di specie nelle quali i piccoli non sono in grado di provvedere a se stessi, come i neonati umani, gli uccellini implumi e i cuccioli del lupo. Ma questo non basta; infatti molte piccole scimmie e i piccoli canguri sono a loro volta indifesi, ma non destano alcun sentimento paterno.
Si tratta sempre di specie nelle quali i piccoli vengono allattati in un solo luogo, una sorta di nido, di tana, o di sporgenza rocciosa, al quale la madre deve tornare. Questo sembra essere un fattore vitale. Non riesco a trovare nessuna eccezione. Invero, Robert Ardrey fa un ragionamento molto persuasivo per dimostrare che l’attaccamento al luogo, è, in realtà, l’istinto fondamentale in questi casi, mentre la devozione alla femmina(e a volte ai piccoli) che vi dimorano temporaneamente sarebbe un semplice corollario.
Eppure anche questo non basta, poiché i piccoli dei gatti, degli orsi e dei roditori sono anch’essi indifesi in un nascondiglio, eppure babbo gatto, babbo orso e babbo coniglio si attengono alle loro noncuranti abitudini di scapoli.
Sembrerebbe che il padre entri in scena soltanto come ultima risorsa, quando, per una ragione o per l’altra, il compito di badare ai piccoli è troppo impegnativo perché possa assolverlo la madre da sola. E’ questo il caso di molti uccelli, i cui piccoli devono svilupparsi completamente in una sola breve stagione; essi hanno un appetito talmente vorace che occorrono le fatiche di entrambi i genitori, in ogni ora concessa da Dio, per riempire i loro becchi spalancati. E’ il caso del castoro, perché il focolare, la casa e la sicurezza della stanza dei bambini dipendono dal suo servizio di riparazioni disponibile ventiquattr’ore su ventiquattro, per otturare con un preavviso di cinque minuti, qualsiasi falla si apra nella diga. E’ il caso di alcune specie artiche, le quali vivono in un ambiente così ferocemente ostile che senza un sistema di turni, i genitori non riuscirebbero mai a far schiudere un uovo, e tanto meno ad allevare il pulcino, senza morire, nel corso del tentativo, di freddo e di fame. In circostanze come queste, il padre si dimostra splendidamente all’altezza dell’occasione: è una torre di forza. Mentre invece, dove la vita è facile, tende a copulare e poi andarsene fischiettando altrove, tutto quello che accade in seguito è strettamente di pertinenza della femmina.
Quanti di questi fattori erano validi per l’uomo primitivo? I suoi piccoli nascevano indifesi, ma soltanto marginalmente più indifesi di quelli di un gorilla. Tuttavia, man mano che il loro cervello diventava più complesso e avevano bisogno di un cranio più grande, dovevano nascere in uno stadio sempre più “prematuro”, altrimenti non sarebbero mai passati attraverso l’anello pelvico; per conseguenza, il periodo durante il quale rimanevano indifesi diveniva molto più lungo; e poiché le loro madri non avevano una pelliccia a cui potersi avvinghiare, erano più ingombranti a portarsi.
In secondo luogo, la tana. Man mano che l’economia di caccia e di raccolta diveniva la norma, sia maschi che femmine venivano a trovarsi spesso in possesso di più cibo di quanto ne occorresse loro per nutrirsi sul momento. Dovevano avere qualche posto in cui portarlo e accumularlo, e, in uno stadio successivo, qualche posto in cui cucinarlo. Nei primati subumani era già una caratteristica della famiglia incentrata sulla madre il fatto che la madre stessa dividesse il cibo con i piccoli: questo accade tra gli scimpanzé . Nelle rare occasioni in cui uno scimpanzé riesce a catturare un animale e a procurarsi un po’ di carne, la divide con i vicini; ma la madre divide il cibo di qualsiasi genere con i suoi piccoli, se essi lo chiedono.
Così, man mano che la femmina ominide diventava più abile nel procurarsi il cibo e più ingegnosa nel prepararlo, i piccoli imparavano che, se avevano fame e non c’era niente di saporito in vista, potevano sempre rivolgersi a mammà per avere una razione. Si recavano nel luogo ove ella teneva i recipienti e la pietra per macinare; si recavano, in effetti, a casa. E se trovavano qualcosa di entusiasmante, ma non di immediatamente edibile, come una tartaruga, lo portavano a casa, e lei se ne occupava.
Ricordate, è questo un rapporto che anche nelle scimmie dura otto anni e più. Qualsiasi ominide che avesse trascorso il primo decennio della sua esistenza tornando a casa da una donna per consumare i pasti ci si sarebbe abituato. Avrebbe cominciato a mettersi in mente l’idea che questa era una delle cose a cui servivano le femmine e, una volta morta sua madre, o un a volta indebolitisi finalmente il legame incentrato sulla madre, egli si sarebbe automaticamente guardato attorno in cerca di un’altra femmina. ….
…. Si irritava tremendamente se trovava altri maschi adulti tra i piedi della stessa femmina e intenti a servirsi. Il sesso era un conto, si poteva averne in abbondanza dappertutto e la sua razione non sarebbe diminuita se qualcun altro fosse arrivato per primo, ma il cibo era tutto un altro paio di maniche. I frutti di due o tre ore di raccolta e macinazione potevano essere fatti scomparire in dieci minuti da un intruso affamato, e il cibo, una volta consumato, non esisteva più. Di lì a non molto, egli ritenne opportuno prendere posizione anche per quanto concerneva il problema del sesso; perché da quando il sesso era diventato meno sessuale e aveva incluso l’amore, la donna tendeva a guardare con occhi teneri e quasi materni chiunque la coccolasse e la trattasse con tenerezza, e consentiva a costoro, senza sollevare obiezioni, di fare piazza pulita dei dolcetti ai semi di mellone.
Questo lo infuriava. A volte l’uomo si impegnava tanto nell’impedirlo e nell’affermare il proprio diritto alla priorità nei rapporti sessuali con la donna, che gli rimaneva poco tempo o nessuno per andare in giro ed essere promiscuo per suo conto. “Questa è la mia donna” diceva a se stesso. “E questo è il mio posto. E queste terraglie che la donna ha fatto sono mie. E questi piccoli che la donna ha fatto, sebbene non avesse la più pallida idea di avere contribuito a crearli, questi sono i miei figli”.Si era avviato bene verso il gruppo familiare incentrato sulla madre, e aveva percorso molta strada per diventare un “papà”.
Ma il vero uomo, l’homo sapiens vero e proprio, è figlio del pleistocene. In quei millenni turbolenti durante i quali gli ominidi vagabondarono sulla superficie della Terra, durante i quali l’emisfero settentrionale oscillò tra ere di ghiacci e ere di vegetazione, e l’emisfero meridionale tra carestie polverose e piogge torrenziali, in quei millenni entrò in gioco il terzo fattore. Se il nucleo familiare non avesse acquisito un padre nel frattempo, sarebbe stato necessario inventarlo. Più e più volte la famiglia umana dovette passare attraverso crisi climatiche durante le quali quasi ogni bambino vivente ebbe un padre la cui dedizione al gruppo familiare era incrollabile, non perché vi sia nel cuore umano qualche riserva di nobiltà che le avversità invariabilmente ridestano, ma semplicemente perché un bambino con un padre diverso sarebbe morto.
L’era dell’Uomo Cacciatore fu innegabilmente cruciale, ma io ritengo che sia stata fraintesa sotto molti aspetti. ….
…. Io credo insieme ai tarzaniani, che questa fu l’era nella quale il nucleo familiare cominciò ad evolversi. Ma credo che la sua evoluzione non dipese tanto dal sesso, quanto dall’economia. Credo che questa evoluzione abbia avuto assai meno tempo per avviarsi di quanto spesso si presume, e ritengo che, in termini biologici, siamo adattati ad essa assai imperfettamente.
Se decidiamo che il matrimonio è un sistema meritevole di essere conservato, e c’è qualcosa da dire a favore di questo punto di vista, sebbene attualmente gli iconoclasti siano spesso più eloquenti dei tradizionalisti, non gioverà affatto presumere che in questa impresa Madre Natura sia presente per agire in vece nostra a qualche livello subliminale e che le occorra soltanto un po’ più di aiuto nel dipartimento di atletica da camera da letto per fare in modo che tutto vada a gonfie vele. La natura agisce per il gibbone, per il castoro e per il gamberetto, ma non per noi. ….
-La Morgan osserva che nei mammiferi in cui si realizza un rapporto di coppia rigidamente monogamo, come il castoro, il gibbone o il callicebus, non c’è nessuna traccia di predominio maschile sulla femmina, ed anzi in queste specie la femmina tende ad essere persino più grande e aggressiva del maschio.-
…. Può essere naturalmente una pura coincidenza il fatto che la monogamia nel mondo dei mammiferi risulti così spesso coincidere, per così dire, con una certa misura di liberazione delle femmine. Può darsi che l’abitudine della monogamia abbia eroso ogni dominio maschile esistito un tempo. Può darsi che l’abitudine del dominio maschile si sia evoluta principalmente per regolare le interazioni tra maschi, e il maschio che dimora in permanenza in seno alla famiglia non ne ha alcun bisogno e in ultimo lo mette da parte. Oppure, ancora, può essere che sia venuta prima una certa misura di uguaglianza sessuale, e che ciò sia stato il necessario preludio a legami di coppia davvero riusciti nelle specie di mammiferi.
Se così stanno le cose, abbiamo molta strada da percorrere, perché l’interesse del maschio umano per il dominio è sopravvissuto a tutte le sue vicissitudini evolutive nel mare e sulla terra. Esso è forte in lui oggi come lo era nei suoi antenati, quando ululavano sulle chiome degli alberi, e ci occorrerà un intero capitolo soltanto per intaccarne la superficie.